La campagna Lesvos Calling ha portato nell’isola decine di giovani, volontari e attivisti. Dallo scorso autunno fino a metà marzo, Padova (ma più in generale l’intero Nord Est) si è spesa sul fronte della solidarietà agli oltre 20.000 confinati nel campo profughi di Moria.
E’, di fatto, una catastrofe umanitaria che replica la stessa vergogna di Idomeni al confine con la Macedonia nel 2016.

Intorno all’hub istituzionale protetto dal filo spinato e pensato per 3.000 persone, a Moria sono state “colonizzate” intere colline di ulivi da chi è sbarcato dai gommoni partiti dalla costa turca. Ma fra container Unhcr e tende più o meno di fortuna, l’elettricità va a singhiozzo e l’acqua non è sempre disponibile.
Così ormai da anni c’è chi sopravvive in mezzo a montagne di rifiuti, senza assistenza sanitaria e con lunghe code nelle gabbie per la distribuzione del cibo.

Donne e bambini sono di nuovo l’emblema della vergogna d’Europa, quanto i minori non accompagnati che sono esposti ad ogni genere di rischio. A gennaio, Lesvos Calling è ritornata a Moria anche per distribuire alle donne centinaia di kit con assorbenti igienici biodegradabili, detergenti e biancheria intima. Nell’ultimo viaggio, invece, la campagna ha documentato gli episodi di intolleranza violenta (innescati dagli ultrà di Alba Dorata spalleggiati dai neo-nazisti tedeschi e austriaci) e il drastico giro di vite del governo greco nei confronti dei profughi. Nemmeno l’emergenza Covid (con il primo caso conclamato di una donna di Lesbo rientrata da un viaggio in Israele) è finora servita a sanare la piaga di Moria…

Anche da lontano ci si può informare grazie ai puntuali e dettagliati rapporti di Aegean Boat Report e di Light House Relief. Oppure alle cronache della giornalista indipendente Franziska Grillmeier.

Oltre alla clinica pediatrica di Medici Senza Frontiere e alle ong internazionali presenti a Lesbo, è davvero emblematica l’attività di Mosaik dal punto di vista dell’integrazione fra migranti, residenti e volontari.
Lesvos Calling, invece, è stata raccontata per immagini dal fotoreporter padovano Massimo Sormonta.

Infine, le voci dall’interno del campo profughi di Moria.

«Sono passati due anni da quando sono nel container. Mia moglie e mia figlia hanno ottenuto protezione, ma le hanno trasferite in un’altra isola. Eravamo una famiglia stretta nella morsa delle bombe e dell’incubo di Daesh. Ma ora il nostro futuro è eternamente sospeso, incerto,
nero» confessa sconsolato il curdo.

«Vengo dalla striscia di Gaza. Ora sono qui e non è cambiato niente» sospira l’anziana palestinese che condivide le tende con le giovani famiglie siriane, irachene e curde.

«Ho un sogno: poter avere una vera macchina fotografica tutta mia» sorride la ragazzina afgana appena scesa con l’amica del cuore dal bus che fa la spola con Mytilene, la capitale dell’isola.

 

Ernesto Milanesi