Abbiamo chiesto ad alcuni docenti universitari riflessioni e contributi sulle implicazioni dell’emergenza sanitaria e riflessioni a livello sociologico, psicologico, antropologico ed economico.
Di seguito l’intervista del professor Massimo Santinello, docente di Psicologia di Comunità, Università di Padova
«Faccio una premessa che vale per tutte le risposte a queste domande così impegnative. Per ogni risposta ci vorrebbero dei dati, ci vorrebbero degli studi scientifici che ci dicano esattamente come stanno le cose, altrimenti quando si parla di fenomeni così complessi, fenomeni collettivi il rischio è che non si vada più lontano dalle chiacchiere da bar, pareri basati su impressioni personali, interpretazioni di quello che ognuno vive, che ci dicono forse qualcosa sulla personalità e il sistema di credenze di chi risponde ma poco di quello che accade realmente».
Come e perché il coronavirus sta incidendo sulle certezze e le sicurezze delle persone e delle collettività…
«Il coronavirus possiamo considerarlo un evento, una situazione stressante alla quale le persone reagiscono usando le risorse personali o ambientali di cui dispongono. Le ricerche ci dicono che la percezione di stress e quindi le conseguenze negative sono tanto maggiori quanto maggiore è il grado di imprevedibilità e di controllo sull’agente stressante. Sul Covid-19 si sa poco, poco sulla sua pericolosità e sulle modalità con cui si diffonde e molti organismi internazionali e nazionali hanno contribuito a generare confusione.
Governo, organi di informazione, social network hanno contribuito a creare questa atmosfera aggiungendo alla confusione sulla natura del virus quelle sulle misure per fronteggiarlo. Questo ha generato una grande frustrazione all’esigenza, al bisogno “di controllo” o come alcune ricerche hanno documentato l’illusione di controllo, che sta alla base della salute mentale di tutte le persone. Abbiamo tutti bisogno di certezze, di stabilità e sicurezza: il coronavirus è la tipica situazione in cui tutto questo manca e quindi ci si rifugia in termini come comunità, vicinato, altre illusioni, buone per i primi giorni, poi abbiamo visto tutti come è andata a finire».
Quali sono gli aspetti che hanno alimentato e stanno alimentando la paura? Come possiamo invertire la rotta?
«Qui la risposta è connessa in parte alla domanda precedente (l’illusione di controllo); l’altra parte della paura è generata dai media, soprattutto dai giornalisti della carta stampata e dalla tv che fanno a gara con i loro titoli a dire tutto e il contrario di tutto. Inoltre sono più preoccupati a essere cassa di risonanza per i politici senza un minimo di analisi critica su quello che viene riferito.
Per esempio, le cifre iperboliche che ogni associazione di categoria ha sparato sulle conseguenze negative della crisi: mi sarebbe piaciuto che qualche giornalista sommasse tutti i miliardi di perdite proclamati dalle diverse associazioni e poi l’ammontare complessivo fosse trasformato dal punto di vista del reddito e del carico fiscale quando è tempo di pagare le tasse. E’ stato un pianto continuo a quale categoria stesse peggio, ma con la logica: meglio che muoiano i poveri ma salviamo i ricchi piuttosto che salviamo tutti anche se tutti più poveri. Invertiamo la rotta indicando dove si possono trovare i soldi per tutti: paradisi fiscali, grandi patrimoni.
Inoltre si sono usate metafore come quella della guerra, oltretutto sbagliando di indicare dov’era la linea del fronte: gli ospedali sono le retroguardie (senza negare il valore immenso di chi ci ha lavorato), il fronte è sul territorio, è lì che si vince e si blocca l’epidemia. Ci si è concentrati sugli effetti, sulle terapie intensive, le cure, la retorica degli eroi e degli angeli, trascurando le cause, il contagio, la comunità. Lì è il vero fronte, lì si vince la guerra, lì vanno fatti gli sforzi e i blocchi. Ci si è già dimenticati degli striscioni di “Vò libero”, delle proteste per toglierli i blocchi. Salvo poi che in pochi giorni si è chiusa tutta l’Italia».
Come sta influendo la situazione emergenziale sulle reti relazionali e sugli spazi e luoghi di socialità?
«Siamo passati dalla riscoperta del vicinato immediatamente dopo la chiusura, al ritorno al “mi arrangio da solo, grazie”. I nostri dati ci dicono che chi ha usato le reti virtuali e i social per condividere le proprie emozioni negative (ma anche positive) ha affrontato meglio la crisi con minori conseguenze in termini di salute mentale e usando i network per favorire anche comportamenti pro-sociali. Quindi difficilmente le reti di prossimità torneranno di moda: le persone si abitueranno sempre di più a usare quelle virtuali continuando a cullare l’illusione che si può farcela anche senza gli altri. Gran parte dei volontari che si sono attivati a Padova, dai nostri dati, sono volontari che avevano già avuto esperienze analoghe. I dati della ricerca internazionale ci dicono che dopo fenomeni particolari come questi – ma anche terremoti, atti terroristici, ecc. – immediatamente dopo, le persone si attivano e i comportamenti pro-sociali abbondano. Qualcuno ricorderà i diari di Marco Paolini sul dopo terremoto del Friuli. Niente di nuovo ma ci si dimentica in fretta, di tutto».
L’emergenza mina il senso di responsabilità individuale. Come possiamo farlo diventare priorità?
«Di quale responsabilità si sta parlando? Di quelli che hanno chiesto i buoni pasto pur essendo ricchi? Di chi ha indirizzato i pazienti che uscivano dagli ospedali nelle case di riposo? Di chi attribuisce le colpe al governo centrale o ai cittadini a seconda di cosa conviene? Non siamo vicini a quello che gli americani chiamano “biasimare la vittima”, ossia me la prendo con i cittadini che non rispettano le regole…. ma dove e con che facilità trovano le mascherine? E i guanti? Perché devo spendere per avere il tampone? In altre parole, si sono create le condizioni affinché il cittadino possa rispettare le regole oppure sono il facile alibi con cui giustificare l’incapacità di gestire e programmare cosa va fatto sul territorio?»
C’è un rischio di non ritorno rispetto a questa socialità modificata? una possibilità di nuove emarginazioni, di un protrarsi di isolamento in situazioni già complesse? Come possiamo non abituarci alla distanza?
«Il distanziamento è un processo naturale già in corso da tempo. Basta vedere come stanno cambiando i nuclei familiari, le reti sociali, si preferiscono le relazioni con animali piuttosto che con umani. Il dopo sarà sempre peggio. Ci si è già dimenticato di gratificare economicamente il personale sanitario, per favorire Confindustria…. Si riapre a prescindere dai dati…..la Lombardia (perché riaprire lì?) dimostra chiaramente come il modello sistema della sanità privata abbia fallito, ma si sostiene il contrario, perché, come dicevo all’inizio a chi interessano i dati?»
Massimo Santinello
Laureato in Psicologia a Padova nel 1982,è professore ordinario di Psicologia di Comunità presso l’ateneo patavino. È autore di manuali della disciplina e di oltre 100 articoli ospitati in riviste scientifiche nazionali e internazionali. Si interessa di progettazione, realizzazione e valutazione di programmi per la promozione della salute e del benessere in diversi contesti. Ha elaborato test per l’analisi dello stress degli ambienti di lavoro (LBQ per l’area dei servizi alla persona tradotto in 8 nazioni; SICRO per lo stress delle famiglie con pazienti cronici; SEPRO per organizzazioni che lavorano nell’area della marginalità) collaborando con associazioni e strutture del territorio (Caritas, scuole, CentroServizi Volontariato, Cooperative sociali, SerD). Dal 2002 si è occupato del sistema di sorveglianza nazionale per la salute dei preadolescenti (HBSC) sperimentando con successo una metodologia per la prevenzione dell’abuso di alcolici tra i giovani (programma PAASS).