Il 5 dicembre scorso, in occasione della giornata internazionale del volontariato, Forum nazionale del Terzo settore, Caritas Italiana e CSVnet hanno organizzato a Roma l’incontro «Ricostruire una comunità solidale: il ruolo del volontariato nel terzo settore».

Riportiamo l’intervento d’apertura di Stefano Tabò, presidente CSVnet

Anche quest’anno, come ormai da tanti anni, darci l’augurio di buon giorno il 5 dicembre significa augurarci «anche» (non siamo integralisti) una buona «giornata del volontariato». Lo facciamo qui, insieme. Lo si fa in tanti paesi del mondo, non tutti purtroppo. Lo si fa ovunque per ragioni precise.
La giornata del volontariato è la ricorrenza internazionale che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha inteso dedicare al riconoscimento del lavoro, del tempo, delle capacità dei volontari in tutto il mondo.

«Ricostruire una comunità solidale» è il titolo che oggi caratterizza il nostro evento. Quello dell’Onu, comunicato tardivamente, risulta in linea e parla di un volontariato che agisce per un futuro inclusivo. C’è la conferma, ne siamo confortati, della sintonia tra le visioni.
Il primo impegno, tuttavia, è rimanere in sintonia con il senso della ricorrenza. Al di là dei titoli. Perché il perno motivante della giornata non ci spinge a parlare né di esclusione né di comunità sfilacciate. Intendo dire che oggi non siamo chiamati a porre al centro dell’attenzione una criticità. Una delle tante per le quali il volontariato si attiva e che sottraggono al nostro paese condizioni di giustizia, equità, rispetto.

Il 5 dicembre non è una giornata «contro». È una giornata «per» che ci chiama a dare valore ad una testimonianza – quella dei volontari – concreta, effettiva, presente ovunque in Italia, certamente diffusa nel mondo. Una presenza fatta di persone che mettono a disposizione ideali, tempo, energia, esprimendo nei fatti le responsabilità che percepiscono loro.

La Corte costituzionale – lo ricordiamo ancora una volta – ci dice che il volontariato è «la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per la quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa». È una definizione calzante e potente.
Ne siamo convinti anche noi. E ci adoperiamo per assicurare il giusto riconoscimento a tutti i volontari. Li osserviamo e li contiamo. Ci attrezziamo per comprendere dove sono, quanti sono, cosa fanno, dove si spostano, quali esperienze avviano, quali consolidano. È giusto farlo. Ma cogliere dati quantitativi non sempre aiuta. Il 5 dicembre ci impone di ragionare piuttosto in termini di qualità. Qual è la qualità aggiunta che la presenza del volontariato porta nelle nostre comunità? E, prima ancora, che qualità aggiunta porta questa esperienza nella vita di ciascun volontario?

I Centri di servizio per il volontariato hanno riflettuto, durante la loro conferenza annuale, all’insegna del titolo «La follia dei volontari». I volontari, è vero, sono una contraddizione vivente nella società fondata sul tornaconto materiale. Siamo sicuri rappresentino una follia? Ci pare tutt’altro. I volontari testimoniano un’alternativa per tutti ad una vita rinunciataria, difensiva, egoistica. Laddove la dimensione del dono diventa parte costitutiva del proprio modello di cittadinanza.

Certamente, milioni di persone in Italia – tante ma non abbastanza – si «ostinano» in questa pratica di solidarietà. È un fenomeno strutturale e non occasionale che attraversa generazioni e condizioni sociali. Tramite innumerevoli gesti, il volontariato alimenta la fiducia nelle relazioni, rende più sostenibile la quotidianità, cambia le comunità nel tempo presente ed in quello futuro.

Parliamo a proposito di comunità solidali ed inclusive. Dobbiamo continuare a farlo. Sapendo però che il vero strumento inclusivo è lo sguardo con cui la singola persona guarda se stessa e ciò che gli sta attorno. Siamo in grado di percepire uno sguardo inclusivo, di riconoscere una visione che assume la logica della prossimità, di cogliere un movimento che impone a sé il vincolo della relazione. Riflettere sul volontariato il 5 dicembre implica saper cogliere tali dinamiche, generatrici di un «fare» concreto, e richiamare alle loro radici.
I volontari sono tanti, ma possono e devono essere di più. Non è un fenomeno sporadico, è già endemico ma vogliamo che diventi epidemia. Dobbiamo dunque trovare modi comunicativi e leve motivazionali, affinché passi la proposta e si moltiplichi l’esperienza. Una prospettiva che – alla luce dell’enorme varietà del volontariato – non corre certo il rischio di spingere all’omologazione.
Il volontariato è un atto di libertà. È anche fattore di pluralità, tante sono le forme in cui si esprime, ripercorrendo tracce tradizionali o assumendo lineamenti inediti. Questa varietà ci rimanda però ad un’identità unitaria. Ad una cultura che, secondo il Codice del terzo settore, è riferimento non solo per le organizzazioni del settore.
L’articolo 19 del Codice prevede, infatti, che «le pubbliche amministrazioni promuovono la cultura del volontariato». «La» cultura, appunto. Non siamo in presenza di un dovere funzionalmente codificato. Non si dice come perseguirlo. Né si delinea uno specifico obbligo di intervento con mezzi dedicati. Però si presuppone una precisa intenzionalità strategica e si vincola ad un risultato.
Il presupposto della disposizione contenuta nell’art. 19 non può essere circoscritto al riconoscimento del volontariato quale portatore di utilità sociali. C’è di più. Lo si apprezza quale cultura di cittadinanza, orientata ai valori costituzionali, capace di favorire al meglio la promozione del bene comune.
La conseguenza è impegnativa. Promuovere la cultura del volontariato non può significare semplicemente sostenere il mondo del volontariato nelle sue forme di vita. Richiede di andare oltre. Comporta l’agire attraverso l’azione amministrativa e legislativa affinché i modelli e i valori del volontariato transitino nella società e nelle istituzioni.
Dentro l’art. 19, di cui si sta parlando troppo poco, è insita una sfida che coinvolge e responsabilizza tanto le pubbliche amministrazioni quanto le organizzazioni del volontariato. Quali sono i desideri e le forme vitali della cultura del volontariato che le norme e le prassi non riescono a cogliere?

Il 5 dicembre ci rimanda primariamente ai luoghi dove i volontari si motivano, crescono, dove agiscono. Il luogo più naturale per celebrare il 5 dicembre è dunque la comunità: le singole comunità ed i singoli territori.
Nel 2020 Padova sarà la prima città italiana ad essere capitale europea del volontariato. Il 7 febbraio siamo tutti invitati, insieme al Capo dello Stato Sergio Mattarella, ad inaugurare simbolicamente il percorso. È un riconoscimento internazionale che ci inorgoglisce. E sono convinto sia valido veicolo per trasmettere realmente il senso e l’identità del volontariato italiano in Europa.
È però importante che riconoscimenti di questo tipo abbiano una durata limitata. Ammettiamolo. L’Italia è un paese policentrico. La presenza del volontariato italiano è una presenza policentrica. Non saremmo in grado di tollerare una capitale «permanente» ma abbiamo bisogno di capitali «temporanee» per ricordarci l’importanza del volontariato ed i significati che lo caratterizzano.
Ed è bene che la capitale sia identificata nella città in quanto tale. È bene infatti che il riconoscimento non si limiti alle esperienze di volontariato che quella città esprime, quasi fossero un corpo a sé stante. Non ho dubbi che Padova renderà conto anche di tutto ciò, in questo appuntamento lungo un anno.
La ricchezza del volontariato delle nostre comunità non sia mai utilizzata, invece, per dividere l’Italia. Troppe volte mi trovo a constatare tentativi in tal senso. Si insiste oltre misura sulle diversità del volontariato delle diverse regioni per avanzare l’immagine di un’Italia divisa. Mentre continuiamo ad essere gelosi interpreti delle peculiarità territoriali, facciamoci strenui difensori del senso comune che le accomuna.
Non permettiamo che si usi il volontariato per fomentare divisioni in questo paese!

C’è un documento che, di fatto, ha dato espressione a questa identità plurale. È la «Carta dei valori del volontariato». Oggi, alla luce dell’evoluzione del fenomeno e del contesto in cui esso si esprime, siamo chiamati a riprendere in mano il testo per rigenerarlo, ponendolo al centro di una partecipata riflessione. C’è chiesto, in sostanza, di riattualizzare la Carta affinché permanga riferimento comune e si confermi efficace strumento espressivo di quella cultura condivisa che sappiamo capace di generare responsabilità e solidarietà.
È un impegno che dobbiamo assumere.