Pubblichiamo integralmente l’articolo uscito su Redattore sociale – con cui collaboriamo da tempo – che si concentra su alcuni dati salienti che emergono dalle due ricerche condotte dall’Università di Padova sui volontari che si sono attivati attraverso il progetto Per Padova noi ci siamo (un primo focus riguarda il periodo del lockdown, un secondo esamina la fase dell’ondata di autunno-inverno) e dal report sul mondo dell’associazionismo padovano nel periodo di isolamento forzato raccolto dal CSV.
E’ un modo per avere una ‘lettura terza’ dei fenomeni che hanno caratterizzato il 2020 di Padova capitale europea del volontariato.
Il quartiere come “soggetto” capace di attivare il volontariato. È quanto emerge dal rapporto annuale 2020 “Azioni, volti e sogni del volontariato padovano” presentato dal Csv di Padova e Rovigo che oltre ai dati sul mondo del non profit provinciale, contiene anche due ricerche condotte dal Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università degli Studi di Padova sul volontariato attivatosi durante il primo lockdown del 2020 e anche nella seconda ondata della pandemia.
A Padova infatti sono stati oltre 1,6 mila i volontari che si sono messi a disposizione del progetto “Per Padova noi ci siamo” che ha visto comune, diocesi e Csv di Padova insieme per sostenere le persone in difficoltà, con il coinvolgimento diretto di più di 70 tra associazioni, consulte di quartiere e parrocchie (cfr. Azioni, volti e sogni del volontariato padovano – Rapporto annuale 2020, pag. 133).Il primo lockdown del 2020, infatti, non ha fermato il mondo del volontariato e del terzo settore, come spiega il rapporto 2020. Tra gli aspetti più rilevanti emersi dalla prima indagine condotta nel 2020, è emerso che “il 58% delle organizzazioni ha continuato ad operare, anche se prevalentemente in modalità a distanza e il 56% delle associazioni si è attivato con attività specifiche legate all’emergenza, spesso nuove rispetto alle attività ordinarie, dimostrando una buona capacità di resilienza”. La maggior parte delle associazioni, inoltre, ha potuto contare su una stretta collaborazione con l’ente pubblico, mentre le principali attività sospese sono state le iniziative culturali e ricreative.
La ricerca dell’Università di Padova condotta sulla prima parte del 2020 (cfr. Azioni, volti e sogni del volontariato padovano – Rapporto annuale 2020, pag. 155) ha fatto emergere un volontariato “episodico”. “Il 43,2% delle persone che si sono attivate per l’emergenza Covid-19 – si legge nel rapporto – non stavano svolgendo altri tipi di volontariato in quel momento, tra questi l’8,6% dichiara di non aver mai svolto nessun tipo di volontariato in passato”. Anche tra le persone con esperienza di volontariato, “il 26% stava svolgendo contemporaneamente sia volontariato organizzato che episodico prima dell’emergenza Covid-19. Il 17,5% stava svolgendo solo volontariato episodico”.
Sebbene i dati raccolti nella prima fase mostrino l’attivazione di un numero consistente di volontari, i questionari sulla seconda fase dell’emergenza mostrano aspetti meno entusiasmanti, soprattutto per quanto riguarda i nuovi volontari. Tra quanti hanno risposto ai questionari, “nessun nuovo volontario è stato attivato a lungo termine – si legge nella ricerca -. Probabilmente le persone già poco attive hanno voluto sperimentare azioni di volontariato legate all’emergenza, senza una reale motivazione a continuare anche dopo”. Non è ancora chiaro, quindi, come questo impegno sporadico sperimentato durante la prima fase possa trasformarsi in volontariato più strutturato, spiega la ricerca. “Se è già noto che traumi collettivi favoriscono solidarietà, identità collettiva, partecipazione civica e attivazione di comportamenti pro-sociali – si legge nel testo -, è ancora poco chiaro se e come questi atteggiamenti si trasformino nel tempo in forme di volontariato più strutturato”.
La novità emersa dalla seconda fase della ricerca del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione riguarda invece il coinvolgimento dei quartieri della città.
“Alla luce dei risultati, anche della seconda fase di indagine il quartiere diventa una realtà, un soggetto da non sottovalutare per l’attivazione delle persone: risulterà – suggeriscono i dati – più probabile attivare forme di volontariato legate a problemi del quartiere”. E la centralità del quartiere suggerisce “la necessità di orientare politiche pubbliche focalizzate ad attivare forme di volontariato di quartiere – spiega la ricerca -, ma anche nuove figure professionali adibite all’attivazione e sostegno di reti informali di vicinato che la crisi ha più volte documentato come possano essere funzionali per combattere solitudini ed emarginazione”.Secondo la ricerca, infatti, occorre pensare a “figure professionali e servizi come ‘attivatori di quartiere’ che si occupino esclusivamente delle attività a livello locale, di tessere relazioni tra i cittadini e tra cittadini e associazioni o istituzioni, che lavorino nell’ottica delle reti informali, per esempio delle social street oppure dei progetti legati al ‘buon abitare’, con l’obiettivo di promuovere l’attivazione di piccole reti di solidarietà e azione sociale, che potrebbero rappresentare un modo per dare respiro diverso alle politiche sociali”.
Per Massimo Santinello, professore ordinario di Psicologia Sociale all’Università degli Studi di Padova e coordinatore delle due ricerche, “emerge ora l’esigenza di capire cosa spinge le persone ad attivare comportamenti pro-sociali, cosa muove le persone nel loro quartiere, nella loro città, cosa le aiuta a “rimanere”, a stare in un contesto di solidarietà. Lungi dall’essere una ricerca che offre risposte definitive, la raccolta di informazioni sul progetto “Per Padova noi ci siamo” ci sta aiutando a capire perché una città si attiva spontaneamente, scoprendo che le risposte come sempre sono complesse. Abbiamo bisogno di una cultura del volontariato, non di un bisogno di volontariato. Speriamo che questo l’emergenza l’abbia insegnato”.